mercoledì 25 giugno 2008

La piscina condominiale le normative



La piscina condominiale: le normative
Da tempo le piscine sono oggetto di interventi normativi che riguardano anche gli impianti condominiali. I più importanti, fra i provvedimenti recenti, sono l’atto di intesa Stato-regioni del 16 gennaio 2003, che deve essere recepito nella legislazione delle singole regioni (così come ha fatto di recente la regione Toscana) e il successivo accordo interregionale del 16 dicembre 2004.
[a cura di Ettore Ditta, Avvocato ]

Fonti della disciplina
Per quanto riguarda le piscine in generale nel corso degli anni sono stati emanati dapprima solo alcune circolari ministeriali e, successivamente, anche provvedimenti normativi di altro tipo, fra i quali risaltano per importanza soprattutto l’atto di intesa fra Stato e regioni approvato nella seduta in data 11 luglio 1991 (e pubblicato nel s.o. 32 alla Gazzetta Ufficiale 39 del 17 febbraio 1992), poi sostituito dall’accordo approvato dalla Conferenza permanente Stato-regioni del 16 gennaio 2003 (e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 51 del 3 marzo 2003), insieme all’accordo, che a sua volta ne dà attuazione, intercorso in data 16 dicembre 2004 tra le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano. A essi si devono aggiungere infine le normative regionali, come la recente legge regione Toscana 8 del 9 marzo 2006 (a tal proposito si veda, in questo fascicolo, l’articolo di D. Foderini a pag. 1043). L’elenco dei principali testi di riferimento è il seguente:
la circolare del Ministero dell’interno 15 febbraio 1951, n. 16;
la circolare del Ministero della sanità 16 luglio 1971, n. 128;
il decreto ministeriale 10 settembre 1986;
l’atto di intesa Stato-regioni 11 luglio 1991 sulle piscine a uso natatorio;
il decreto del Ministero dell’interno 18 marzo 1996;
l’accordo approvato dalla Conferenza permanente Stato-regioni del 16 gennaio 2003 sugli aspetti igienico-sanitari per la costruzione, la manutenzione e la vigilanza delle piscine a uso natatorio;
l’accordo tra le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano del 16 dicembre 2004 sulla disciplina interregionale delle piscine in attuazione dell’accordo Stato-regioni del 16 gennaio 2003.

La circolare dell’Interno 16/1951
La circolare del Ministero dell’interno 16 del 15 febbraio 1951 contiene norme di sicurezza per la costruzione, l’esercizio e la vigilanza dei locali destinati a pubblico spettacolo. Tra le altre cose l’agibilità delle piscine viene subordinata all’osservanza delle norme sanitarie stabilite dal medico provinciale (art. 104); vengono precisate le caratteristiche costruttive della vasca (art. 105), quelle dei trampolini per i tuffi e per le piattaforme di lancio (art. 106), viene indicato il numero massimo di persone presenti (art. 107) e viene imposta la costruzione di docce, gabinetti e orinato in numero proporzionato a quello massimo delle persone che possono avere accesso all’impianto (art. 109).

La circolare della Sanità 128/1971
La circolare del Ministero della sanità 128 del 16 luglio 1971 disciplina la vigilanza igienico-sanitaria delle piscine e contiene alcune indicazioni di massima attinenti alla vigilanza sanitaria che devono essere osservate per lo svolgimento di tali compiti, in modo da assicurare una certa uniformità di impostazione in tutto il territorio nazionale, e la cui violazione è fonte di responsabilità ai sensi dell’art. 344 T.U. delle leggi sanitarie 1265 del 27 luglio 1934; tali indicazioni riguardano l’acqua di alimentazione, il controllo del numero dei bagnanti, l’entità della ricircolazione dell’acqua, la filtrazione, la disinfezione, il dosaggio e il controllo del cloro, i controlli batteriologici e gli esami chimici. Sia la circolare del 1951 sia quella del 1971 non sembrano suscettibili di applicazione per quanto riguarda le piscine condominiali, in quanto le norme previste da esse (e i conseguenti obblighi) sono destinate specificamente alle piscine aperte a un uso pubblico e nelle quali viene praticata una vera e propria disciplina sportiva, mentre nelle piscine condominiali il loro utilizzo, di regola, è rivolto ai condomini e ai loro ospiti per scopi soltanto di piacere e svago.

Il D.M. 10 settembre 1986
Questo decreto contiene norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio di impianti sportivi. Di particolare rilevanza è l’art. 20 che conferma che, per le piscine, restano valide le disposizioni dettate dalla circolare 16/1951 e modifica l’art. 110 della circolare sui requisiti previsti per i due bagnini destinati al servizio di salvataggio. Anche il D.M. 10 settembre 1986 non sembra applicabile alle piscine condominiali, dal momento che le sue norme sono destinate specificamente alle piscine aperte a un uso pubblico e nelle quali viene praticata una vera e propria disciplina sportiva.

L’atto di intesa 11 luglio 1991
L’atto di intesa era stato approvato dalla Conferenza permanente tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano in data 11 luglio 1991 ed era stato pubblicato nel s.o. 32 alla Gazzetta Ufficiale 39 del 17 febbraio 1992. Si tratta di un testo normativo che si occupa degli aspetti igienico-sanitari concernenti la costruzione, la manutenzione e la vigilanza delle piscine a uso natatorio ed è rivolto a uniformare la regolamentazione nelle materie indicate. L’atto classifica le piscine (art. 2) e stabilisce, in modo particolareggiato, quali devono essere le caratteristiche dell’area di insediamento delle piscine (art. 3), gli elementi funzionali del complesso piscina (art. 4), i requisiti igienicoambientali (art. 5), la dotazione di personale, di attrezzature e di materiali (art. 6), gli aspetti igienici di gestione (art. 7), i controlli (art. 8). L’atto conteneva prescrizioni molto onerose per i gestori delle piscine (obbligo del bagnino, realizzazione di docce e servizi e altro ancora), ma aveva valore solamente programmatico in attesa di essere recepito nella legislazione delle singole regioni. Ma l’atto di intesa non era stato recepito dalle regioni a causa delle critiche formulate dagli operatori del settore e, per questo motivo, il Ministero della sanità nell’anno 1993 aveva invitato le regioni ad attendere in vista della prevista semplificazione delle previsioni contenute nell’atto di intesa (anche se poi nell’anno 1994, contraddicendo il precedente invito del Ministero della sanità, una circolare del Ministero degli interni aveva dichiarato che l’atto d’intesa doveva essere considerato già operativo). Infine, l’atto di intesa è stato superato dall’accordo della Conferenza Stato-regioni 16 gennaio 2003 e dagli atti successivi. L’art. 1 dell’atto di intesa, a proposito dell’ambito di applicazione delle prescrizioni contenute nell’atto stesso, stabiliva che esso si doveva applicare esclusivamente alle piscine di uso pubblico. Però il successivo art. 2, distinguendo le piscine in relazione alla loro destinazione, precisava che tutte le piscine si considerano di uso pubblico, a eccezione di quelle facenti parte di unità abitative mono o bifamiliari, il cui uso fosse limitato ai componenti della famiglia e ai loro ospiti (che si consideravano, quindi, di uso privato). Da tali premesse conseguiva allora che l’atto di intesa del 1992 era applicabile a tutte le piscine con esclusione unicamente di quelle facenti parte di unità abitate da uno o due famiglie. È chiaro che gli estensori dell’atto di intesa del 1992 avevano preferito privilegiare una definizione dei destinatari dell’atto stesso assai ampia, ma, in questo modo, si era finito per imporre gli obblighi previsti dall’atto a quasi tutte le piscine esistenti. In relazione al caso delle piscine condominiali, sarebbe stato invece opportuno che gli estensori dell’atto d’intesa avessero previsto un regime speciale; tuttavia l’unico riferimento che l’atto faceva alle piscine al servizio di un condominio era quello contenuto nell’art. 10, dove si prevedeva per tale ipotesi (unitamente a quella di altre comunità quali multiproprietà, alberghi, camping, circoli sportivi, villaggi turistici, scuole, caserme, e simili) la possibilità di adottare deroghe in relazione ad alcune indicazioni dettate dall’art. 3 (sulla raccolta di rifiuti e sull’ampiezza dell’area totale di insediamento delle piscine).

Il D.M. 18 marzo 1996
Il decreto del Ministero dell’interno 18 marzo 1996 (s.o. 16 alla Gazzetta Ufficiale 85 dell’11 aprile 1996) contiene norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi. Importante, in materia di piscine, è l’art. 14 che disciplina le modalità di costruzione della vasca, il calcolo della densità di affollamento e il numero degli assistenti ai bagnanti. Anche il D.M. 18 marzo 1996 non sembra applicabile anche alle piscine condominiali perché è specificamente destinato a disciplinare gli impianti sportivi. A proposito del D.M. 18 marzo 1996 va comunque ricordata una sentenza (Cass. pen., Sez. I, n. 8101 del 9 febbraio 2005) secondo cui configura il reato previsto dagli artt. 681 cod. pen. e 80, R.D. 773 del 18 giugno 1931 la gestione di una piscina con impianto di acquascivolo, con licenza di agibilità decaduta per il mancato adeguamento alle prescrizioni del D.M. 18 marzo 1996 previste per gli impianti sportivi, in quanto anche nelle piscine con acquascivolo può effettuarsi attività natatoria, che è qualificabile come attività sportiva, e pertanto debbono essere applicate le prescrizioni dirette a garantire la sicurezza dei frequentatori anche contro il rischio di cadute o annegamenti.

L’accordo Stato-regioni 16 gennaio 2003
La Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano con l’accordo in data 16 gennaio 2003 (Gazzetta Ufficiale 51 del 3 marzo 2003) ha predisposto una nuova disciplina sugli aspetti igienico-sanitari per la costruzione, la manutenzione e la vigilanza delle piscine a uso natatorio che ha preso il posto dell’accordo approvato negli anni Novanta, ma che poi non è stato recepito dalle regioni per i motivi che si sono ricordati. La Conferenza ha infatti rilevato che si era reso necessario rivedere l’intesa precedente tra Stato e regioni proprio per le difficoltà applicative che essa aveva determinato; inoltre si era ravvisata la necessità di modificare e aggiornare tale intesa anche in base ai nuovi principi e agli indirizzi normativi derivati dall’emanazione del D.Lgs. 626 del 19 settembre 1994 (sulla sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro), del D.M. 18 marzo 1996, della norma tecnica UNI 10637 del giugno 1997 e del D.Lgs. 155 del 26 maggio 1997 (sull’igiene dei prodotti alimentari). Per quanto riguarda specificamente le piscine condominiali il punto 2 dell’accordo prevede la seguente classificazione delle piscine, sulla base della loro destinazione:
piscine di proprietà pubblica o privata, destinate a un’utenza pubblica; questa categoria comprende le seguenti tipologie di piscine (le cui caratteristiche strutturali e gestionali specifiche devono essere definite da ciascuna regione): a/1. piscine pubbliche; a/2. piscine a uso collettivo; a/3. gli impianti finalizzati al gioco acquatico;
piscine la cui natura giuridica è definita dagli artt. 1117 e segg. cod. civ., destinate esclusivamente agli abitanti del condominio e ai loro ospiti;
piscine a usi speciali collocate all’interno di una struttura di cura, di riabilitazione, termale (disciplinate da normative specifiche). Il punto 3 dell’accordo individua il campo di applicazione e le finalità della sua disciplina e stabilisce che le disposizioni contenute nell’accordo si applicano esclusivamente alle piscine della categoria a) aventi tipologie di vasche previste dalle lettere a), b), c), d), e) e f) del comma 4 del punto 2 e dettano i criteri per la gestione e il controllo delle piscine ai fini della tutela igienico- sanitaria e della sicurezza; invece alle regioni è demandata l’elaborazione di specifiche disposizioni per la disciplina delle caratteristiche strutturali e gestionali delle piscine della categoria b), con la precisazione che i requisiti dell’acqua devono essere quelli previsti all’allegato n. 1 dell’accordo (che contiene i requisiti igienico- ambientali). I punti successivi dell’accordo riguardano la dotazione di personale, di attrezzature e materiali (punto 4), i controlli (punto 5), i controlli interni (punto 6), i controlli esterni (punto 7) e le sanzioni che possono essere comminate al responsabile della piscina in caso di inosservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie formulate dall’autorità sanitaria (punto 8).
L’accordo regioni-province autonome 16 dicembre 2004
Per l’attuazione dei principi generali fissati dall’accordo Stato-regioni del 16 gennaio 2003 è stato successivamente approvato, in data 16 dicembre 2004, un accordo tra le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, contenente la disciplina interregionale delle piscine. La disciplina interregionale sulle piscine viene articolata in due parti distinte:
una disciplina comune che dovrà essere recepita dalle regioni, mediante legge regionale o altro atto, per raccogliere e sviluppare in modo organico i principi enunciati dall’accordo del 16 gennaio 2003 (la classificazione, la definizione, le responsabilità, i controlli interni ed esterni, le sanzioni, i provvedimenti dell’autorità, le procedure autorizzative e i confini temporali per la fase transitoria);
le disposizioni tecniche o regolamenti per la definizione dei dettagli tecnici che, per quanto possono essere articolati e complessi, sviluppano i principi già definiti dalla legge (o comunque dall’atto di disciplina della materia); si prevede che i regolamenti possono essere distinti secondo le diverse categorie di piscine per le quali sono prevedibili requisiti strutturali e organizzativi diversi, rispondendo in questo modo anche all’esigenza enunciata al punto 9 dell’accordo. Le direttive operative del gruppo interregionale sono state quella di orientare la nuova normativa regionale nella direzione della semplificazione amministrativa, già avviata da diverse disposizioni statali e regionali, e quella di tenere sempre in evidenza il campo d’azione di questa nuova normativa, cioè la tutela della salute degli utenti delle piscine, per evitare il sovrapporsi di diverse disposizioni nazionali o regionali che disciplinano altri aspetti. Viene precisato che l’accordo non è un atto normativo, ma un atto politico-istituzionale che impegna i presidenti delle regioni a sviluppare le discipline regionali sulla base dei contenuti dell’Accordo sottoscritto del 16 gennaio 2003; tuttavia l’accordo non è esaustivo in quanto vi sono alcuni aspetti, lasciati all’autonomia regionale, che le regioni intendono sviluppare per trovare definizioni condivise (come quelli relativi ai requisiti strutturali e di gestione, ai controlli e ai frequentatori). Il testo dell’accordo contiene solo i principi generali e le definizioni sono il frutto di una mediazione tra le stesse regioni e tra le regioni e il Ministero della salute. L’allegato 1 e la relativa tabella A fanno parte dei livelli essenziali fissati dal Ministero della salute e sono modificabili solo con un nuovo accordo fra Stato, regioni e province autonome in quanto già oggetto del precedente accordo. L’obiettivo finale della disciplina interregionale, una volta condiviso il testo tra regioni e province autonome, è di sottoporre il documento all’approvazione del Coordinamento interregionale prevenzione e successivamente all’approvazione definitiva della Conferenza degli assessori e dei presidenti delle regioni in modo da stipulare un «Accordo interregionale sulle piscine». Con riferimento alle piscine condominiali nel punto 1 relativo alle «definizioni di piscina» sono specificate ulteriori definizioni ai fini della classificazione della categoria B e quindi in proposito si stabilisce che: per «condominio» si intende l’edificio o il complesso edilizio la cui proprietà è regolata dal titolo settimo, capo II cod. civ. (punto 1.7); è assimilato al «condominio» l’edificio o complesso residenziale costituito da più di quattro unità abitative ancorché appartenente a un unico proprietario (persona fisica o giuridica o in comproprietà pro indiviso) (punto 1.7.1); per «unità abitativa» si intende l’insieme di uno o più locali preordinato come autonomo appartamento e destinato ad alloggio (punto 1.8); è assimilata all’«unità abitativa» l’unità commerciale o artigianale o direzionale ubicata nel condominio, purché l’uso della piscina sia limitato ai titolari dell’attività e ai loro dipendenti o collaboratori (punto 1.8.1); per «singola abitazione» si intende l’edificio residenziale costituito da un’unica unità abitativa (punto 1.9); è assimilato alla «singola abitazione» l’edificio residenziale fino a quattro unità abitative appartenente a un unico proprietario (persona fisica o giuridica o in comproprietà pro indiviso) (punto 1.9.1); è assimilata alla «singola abitazione» l’unità abitativa, ancorché in condominio, che disponga di piscina in area privata riservata all’uso esclusivo dell’unità abitativa stessa, sotto diretta responsabilità del condomino (punto 1.9.2). Le piscine condominiali sono interessate anche dal punto 2, relativo alla «classificazione delle piscine», nel quale si stabilisce che la «categoria B» si riferisce alle piscine facenti parte di condomini e destinate esclusivamente all’uso privato da parte degli aventi titolo e dei loro ospiti; e che in base al numero di unità abitative questa categoria è suddivisa nei seguenti gruppi:
gruppo b1), piscine facenti parte di condomini, superiori a 4 unità abitative;
gruppo b2), piscine facenti parte di condomini, fino a 4 unità abitative.
Nel punto 3 si disciplina il campo di applicazione dell’accordo e si prevede che la legge si deve applicare alle piscine rientranti nella classificazione di cui al punto 2 e che sono escluse dall’applicazione della legge le piscine che costituiscono pertinenza di singole abitazioni. I punti successivi riguardano la dotazione di personale (punto 4, nel quale si stabilisce che il titolare dell’impianto, ai fini dell’igiene, della sicurezza e della funzionalità delle piscine, deve nominare il responsabile della piscina oppure deve dichiarare formalmente di assumerne personalmente le funzioni; che per le piscine di categoria B, salvo diversa formale designazione, il responsabile della piscina è di regola l’amministratore e, in mancanza di amministratore o di responsabile designato, ne rispondono direttamente i proprietari nei modi e limiti stabiliti dal codice civile e dalle altre leggi che regolano la proprietà negli edifici; e che per le piscine della categoria B le funzioni dell’assistente ai bagnanti e dell’addetto agli impianti tecnologici possono essere svolte dallo stesso responsabile della piscina, purché sia in possesso delle necessarie abilitazioni), i controlli interni (punto 6) ed esterni (punto 7, che possono avere luogo anche per le piscine di categoria B e a tale scopo il responsabile della piscina deve garantire l’accesso a tutte le aree e agli impianti della piscina stessa da parte degli organi di vigilanza, nei periodi e orari di funzionamento) e le sanzioni (punto 8). Altra parte rilevante per quanto riguarda le piscine condominiali è il punto 11, nel quale si stabilisce che l’esercizio dell’attività di piscina della categoria B è subordinato a comunicazione all’Azienda Sanitaria Locale nelle forme e nei modi previsti dalle disposizioni tecniche regionali; e che le disposizioni regionali possono prevedere per le piscine di categoria B, gruppo b1) l’utilizzo temporaneo per lo svolgimento di manifestazioni locali aperte alla frequenza di utenti estranei all’ambito condominiale. Alle disposizioni tecniche regionali viene pure attribuito il compito di definire i parametri per la determinazione del numero massimo di frequentatori ammissibili per le piscine della categoria B anche in considerazione del numero massimo dei potenziali soggetti aventi titolo d’uso (punto 13), in quanto in ogni piscina e in ogni momento è consentito l’accesso a un numero di frequentatori non superiore a quello massimo ammissibile calcolato nel modo appena visto. Il punto 14 stabilisce che la regione con propri atti deve emanare uno o più documenti tecnici per la definizione delle caratteristiche strutturali, degli aspetti gestionali, delle procedure di comunicazione, dei tempi e modalità di adeguamento e di ogni altro aspetto per i quali la legge espressamente rinvia a tali disposizioni. Le disposizioni tecniche regionali potranno articolarsi come di seguito specificato, tra l’altro, anche come «Disposizione tecnica Categoria B (linee guida)». Infine il punto 15 si riferisce all’allegato A sui requisiti igienico-ambientali delle piscine, che riguardano le caratteristiche delle acque utilizzate, le sostanze da utilizzare per il trattamento dell’acqua, i punti di prelievo, i requisiti termoigrometrici e di ventilazione, i requisiti illuminotecnici e i requisiti acustici. L’allegato potrà essere, in tutto o in parte, modificato o sostituito a seguito di nuovi Accordi fra Stato, regioni e province autonome mediante il recepimento con deliberazione della Giunta regionale. Ogni piscina deve essere dotata di impianti tecnologici per il trattamento dell’acqua sufficienti a mantenere la piscina stessa costantemente entro i limiti previsti dall’allegato.

1 commento:

Mascalzonelatino ha detto...

La piscina condominiale: uso, spese e responsabilità

La piscina condominiale offre un’ulteriore utilità ai condomini, ma determina anche la necessità – altrove invece assente – di regolamentare l’uso del bene, di individuare il corretto criterio per ripartirne le spese e, soprattutto, di garantire le condizioni ottimali per evitare che gli utenti dell’impianto possano subire qualche danno dal suo uso, danno di cui è tenuto a rispondere il condominio.

[a cura di Ettore Ditta, Avvocato ]



In alcuni edifici condominiali più moderni, soprattutto nelle località di villeggiatura, si trova talvolta anche una piscina destinata ai condomini. La presenza della piscina condominiale senza dubbio impreziosisce la situazione complessiva dell’edificio, fornendo ai condomini un’utilità in più, ma determina anche ulteriori problemi per quanto riguarda il suo uso, la ripartizione delle spese e soprattutto la questione fondamentale della responsabilità per i danni che gli utenti eventualmente possono subire a seguito del suo uso.
Le sentenze emesse negli anni in relazione a questi aspetti non sono particolarmente numerose ma, comunque, forniscono utili indicazioni che è opportuno esaminare specificamente.
Va però innanzitutto segnalata una recente sentenza della Corte di Cassazione che non riguarda i problemi appena accennati, ma merita di essere ugualmente citata perché sfata quello che è un diffuso luogo comune: la presenza di una piscina in un edificio non comporta automaticamente che l’immobile sia di lusso agli effetti della normativa fiscale. Secondo la Suprema Corte (Cass. n. 27617 del 14 dicembre 2005), infatti, la presenza di piscine, come dei campi da tennis, non è né insolita, né impossibile per le dimore residenziali, anche se non è neppure peculiare; così come emerge dal D.M. 2 agosto 1969, che prevede che le case di abitazione possano essere dotate di simili accessori e precisa che – solo in presenza di determinate condizioni – piscine o campi da tennis possono attribuire all’immobile le caratteristiche “di lusso”, fiscalmente rilevanti.
Nel caso esaminato era stato proposto ricorso per Cassazione contro una sentenza emessa dalla Commissione tributaria regionale del Molise, che aveva rigettato l’appello dei contribuenti contro la sentenza di primo grado che a sua volta aveva respinto il ricorso avverso l’avviso di liquidazione con cui l’Ufficio del registro aveva negato la spettanza delle agevolazioni “prima casa” in relazione a un immobile, asserendo che si trattava di edificio di lusso secondo il D.M. 2 agosto 1969; in particolare, nella sentenza della Commissione tributaria regionale si rilevava che l’accertamento aveva evidenziato particolari insoliti e impossibili per dimore residenziali, quali piscine, campi da tennis e simili. La Cassazione, come si è appena visto, ha accolto il ricorso, rilevando che la considerazione secondo cui l’accertamento aveva evidenziato particolari giudicati insoliti e impossibili per le dimore residenziali, come piscine, campi da tennis e simili, non supportava logicamente le conclusioni raggiunte dalla Commissione tributaria regionale; secondo la Suprema Corte infatti l’esistenza di piscine e di campi da tennis non è insolita o impossibile per le dimore residenziali, nonostante il fatto che non sia neppure peculiare di tali dimore, così come si desume dal D.M. 2 agosto 1969, il quale, da una parte, prevede che le case di abitazione possano essere dotate di simili accessori e, dall’altra, precisa che, a determinate condizioni, essi possano attribuire all’edificio le caratteristiche “immobile di lusso”; infatti, l’art. 4 prevede siano considerate di lusso «le abitazioni unifamiliari dotate di piscina di almeno 80 mq di superficie o campi da tennis con sottofondo drenato di superficie non inferiore a 650 mq», mentre l’art. 8 prevede che piscine e campi da tennis posti al servizio di un edificio o di un complesso di edifici possano concorrere a determinare la qualità «di lusso» di case e singole unità immobiliari. Poiché, in definitiva la sentenza appellata non aveva svolto alcuna indagine circa la qualificabilità o meno come “di lusso” dell’immobile, la Corte per questo motivo l’ha cassato con rinvio al giudice di merito al fine di verificare, con adeguata motivazione, la qualità dell’immobile (se residenziale o meno) e le sue caratteristiche (se di lusso o meno).


L’uso

Per quanto riguarda l’uso della piscina il problema fondamentale riguarda la possibilità o meno che un condomino possa invitare ospiti (estranei al condominio). Poiché la piscina costituisce una cosa comune, in proposito trova applicazione l’art. 1102 cod. civ., che consente a tutti i condomini di usare il bene condominiale purché l’uso che ne viene fatto non impedisca agli altri partecipanti di farne pure pari uso secondo il loro diritto. In una decisione non molto recente (Pret. Roma 13 luglio 1989) è stato individuato un limite al diritto di invitare gli ospiti nella piscina condominiale ed è stato deciso che, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1118, comma 1, e nell’art. 1123 cod. civ., il diritto di invitare ospiti nella piscina comune, costituendo un modo di fruizione del bene comune, deve essere esercitato da ciascun condomino in proporzione alla sua quota di proprietà.
Nel caso deciso l’assemblea aveva approvato una delibera secondo cui, così come era stato fatto anche l’anno precedente, ciascun condomino aveva la possibilità di fare accedere alla piscina condominiale, di modeste dimensioni, soltanto un singolo ospite. Il Pretore in proposito ha affermato che il diritto all’invito dell’ospite nella misura che si statuisce in assemblea costituisce un modo di fruizione del bene comune che, ai sensi dell’art. 1118 e dell’art. 1123 cod. civ., deve essere proporzionato alle proprietà.



La ripartizione delle spese

Con riferimento non solo alla piscina, ma in generale anche ad altri servizi condominiali suscettibili di utilizzo separato, la Suprema Corte ha affermato (Cass. n. 5179 del 29 aprile 1992) che nel condominio il principio di proporzionalità fra spese e uso previsto dall’art. 1123, comma 2, cod. civ., secondo cui le spese per la conservazione e il godimento delle parti comuni dell’edificio devono essere ripartite, qualora si tratti di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, in proporzione dell’uso che ciascuno può farne, comporta che qualora la possibilità dell’uso sia del tutto esclusa, con riguardo alla destinazione delle quote immobiliari di proprietà esclusiva, per ragioni strutturali indipendenti dalla libera scelta del condomino, deve essere escluso anche l’onere del condomino stesso di contribuire alle spese di gestione del relativo servizio; nel caso concreto la decisione si riferiva all’ipotesi dei proprietari dei negozi per i quali è stato escluso che fossero tenuti a concorrere nelle spese relative ai servizi condominiali di giardinaggio, piscine e portineria che si trovavano tutti concentrati in un’area comune scoperta e interna, alla quale non avevano neppure accesso. Le loro unità immobiliari, con destinazione a uso commerciale, infatti accedevano dall’esterno e non comunicavano con tale area; però i contratti di acquisto delle loro unità immobiliari, redatti come quelli degli appartamenti, prevedevano l’attribuzione di una quota di proprietà delle parti comuni costituite dall’area in questione, con piscine, giardini, portineria, peraltro in contrasto con quanto veniva previsto dal regolamento di condominio, richiamato e recepito dagli stessi contratti d’acquisto, tanto è vero che, con una apposita scrittura privata, la società venditrice aveva assunto ogni responsabilità per la situazione che si era determinata. Tuttavia, l’amministrazione del condominio continuava a pretendere anche dai proprietari delle unità immobiliari con destinazione a uso commerciale la partecipazione alle spese anche per servizi comuni di cui non potevano, di fatto, usufruire.
La Suprema Corte ha osservato in proposito che, ai sensi e per effetto dell’art. 1123 cod. civ., il contributo alle spese comuni da parte del condomino è proporzionale all’uso che egli può fare del servizio e il criterio della proporzionalità comporta che, qualora la possibilità di uso sia esclusa, deve essere escluso anche l’obbligo di contribuire alle relative spese; quando il mancato uso dipende da ragioni strutturali, indipendenti dalla volontà dell’interessato, il condomino non ha alcun obbligo di contribuire alla spesa per il servizio comune, indipendentemente dalle previsioni del regolamento condominiale e dei singoli atti di acquisto.
In senso analogo a quello appena visto, è stato ancora deciso che in caso di scioglimento totale di un condominio, qualora restino alcuni beni in comune – e qualora manchi un titolo che disponga diversamente – devono essere applicate le norme sul condominio nel caso in cui le cose o i servizi appaiano legati ai singoli edifici in un rapporto di necessarietà e accessorietà, come avviene per gli impianti idrici, di riscaldamento, di illuminazione, il servizio di portierato, gli accessi, il parcheggio per le automobili; mentre nel solo caso in cui si tratti di cose non necessarie per l’esistenza delle costruzioni, come piscine, campi da tennis, negozi, ristoranti, parchi o simili, si applicano invece le norme sulla comunione, trattandosi di beni e servizi che sfuggono al richiamo dell’art. 1117 cod. civ. (Trib. Napoli 24 febbraio 1995).



La responsabilità in caso di danni

Chi usa la piscina può subire qualche incidente (eventualmente anche mortale) o contrarre un’infezione quando l’acqua non viene disinfettata in maniera adeguata. In tali casi può sorgere una responsabilità di tipo civile o anche di tipo penale.
In caso di piscina condominiale la situazione diventa piuttosto complessa perché, alla responsabilità ordinaria che compete al condominio (vale a dire a tutti i condomini), si può aggiungere pure quella dell’amministratore quando viene nominato.
Va ancora precisato che il proprietario della piscina (cioè il condominio quando l’impianto si trova in un edificio condominiale) risponde soltanto verso la persona che ha subito il danno secondo i principi del risarcimento per fatto illecito; al gestore della piscina, invece, può essere chiesto il risarcimento dei danni per effetto di due rapporti diversi: uno contrattuale (che sorge dal contratto di mandato) nei confronti del condominio (proprietario della piscina) e uno extracontrattuale nei confronti della persona che effettivamente subisce il danno, se non si tratta di condomino.
In relazione alla responsabilità contrattuale si deve tenere presente che chi gestisce l’impianto (mandatario) deve anche eseguire il contratto con la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1710 cod. civ.), deve rendere al mandante il conto del suo operato e rimettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato (art. 1713 cod. civ.) e, quando nell’esecuzione del contratto sostituisce altri a se stesso, senza esservi autorizzato o senza che ciò sia necessario per la natura dell’incarico, risponde dell’operato della persona sostituita e delle istruzioni che ha impartito al sostituto (art. 1717 cod. civ.).
In relazione invece alla responsabilità extracontrattuale che sorge in capo al proprietario o al gestore della piscina quando coloro che utilizzano l’impianto subiscono un incidente, sono tre le disposizioni normative in astratto richiamabili:

l’art. 2043 cod. civ., che prevede l’obbligo di risarcire un danno ingiusto a carico di tutti coloro che l’hanno cagionato con dolo o anche con semplice colpa;
l’art. 2050 cod. civ., sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, che impone a chiunque cagiona un danno ad altri nello svolgimento di una attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, di risarcire tale danno, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitarlo;
l’art. 2051 cod. civ., sulla responsabilità per danni causati da cosa in custodia, che obbliga il custode a rispondere per i danni cagionati dalle cose custodite, salvo che egli provi il caso fortuito.
Secondo alcune sentenze datate, l’attività collegata a una piscina costituisce una attività che deve essere qualificata come esercizio di attività pericolose ai sensi e per gli effetti previsti dall’art. 2050 cod. civ. (Trib. Roma 27 marzo 1957; Trib. Milano 5 settembre 1966), ma più di recente la Suprema Corte (Cass. n. 20334 del 15 ottobre 2004) ha invece impostato questi problemi facendo riferimento alla disciplina prevista dall’art. 2051 cod. civ., sulla responsabilità per danni causati da cosa in custodia.
La decisione della Cassazione riguarda il caso di un incidente occorso a un utente della piscina condominiale, il quale nel corso di una festa notturna aveva improvvisamente deciso di tuffarsi in essa e in tal modo aveva riportato gravi lesioni; successivamente aveva chiesto il risarcimento del danno al condominio.
In proposito la Corte ha deciso che il dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all’uso della cosa si arresta di fronte a una ipotesi di utilizzazione impropria la cui pericolosità sia talmente evidente da renderla del tutto imprevedibile, con la conseguenza che l’imprudenza del danneggiato che abbia riportato un danno a seguito di una simile impropria utilizzazione viene a integrare il caso fortuito che, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., esclude la responsabilità del custode del bene; e in base a tale principio la Corte ha escluso il nesso causale fra l’eventuale dovere di custodia dei gestori del complesso immobiliare dotato di piscina e l’evento di danno occorso all’ospite che si era infortunato tuffandosi nella piscina.
Nel caso esaminato l’infortunato affermava che la causa dell’incidente era da ravvisare nella condotta colposa della comproprietà convenuta, perché le luci che illuminavano il piazzale e la piscina erano state spente e perché nessuna sorveglianza veniva svolta dal bagnino addetto all’impianto dopo che, a mezzanotte, aveva lasciato il lavoro.
In primo grado l’azione giudiziaria era stata respinta, così come poi era avvenuto per quanto riguarda il giudizio di appello, nel quale i giudici avevano peraltro escluso che l’uso della piscina potesse integrare di per sé un’attività pericolosa. E, infine, anche la Corte di Cassazione, a sua volta, ha confermato la sentenza di secondo grado.
Per quanto riguarda la questione secondo cui l’utilizzazione di una piscina non costituisce esercizio di attività pericolosa, la Corte ha ricordato che dalle attività pericolose, che per loro stessa natura o anche per i mezzi impiegati rendono probabile e non semplicemente possibile il verificarsi di un evento dannoso e che importano responsabilità ex art. 2050 cod. civ., devono essere tenute distinte quelle normalmente innocue ma che possono diventare pericolose per la condotta di chi le esercita e che comportano responsabilità secondo la regola generale prevista dall’art. 2043 cod. civ.; e che il giudizio di pericolosità deve essere espresso non già sulla base dell’evento dannoso, effettivamente verificatosi, ma secondo una prognosi postuma, che il giudice deve compiere sia facendo uso delle nozioni della comune esperienza, sia in relazione alle circostanze di fatto che si presentavano al momento dell’esercizio dell’attività e che erano conosciute o conoscibili dall’agente in considerazione del tipo di attività esercitata.
Poi la Corte ha osservato che nel caso concreto, dovendosi stabilire se nella fattispecie regolata dall’art. 2050 cod. civ. possa rientrare lo svolgimento di una festa in un complesso turistico con piscina concesso al tal fine dal proprietario agli organizzatori, il giudice di merito aveva escluso che l’uso della piscina di per sé costituisca attività pericolosa e che il pericolo potesse, nella vicenda in esame, derivare dalle modalità particolari di uso che di essa era stato fatto e aveva invece rilevato che l’evento di danno era stato determinato esclusivamente dall’improvvisa e sconsiderata decisione dell’infortunato di tuffarsi nella piscina, con modalità tali che neppure l’eventuale presenza del bagnino avrebbe potuto evitare l’evento.
La Corte ha subito dopo ricordato i principi vigenti in relazione alla responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia e alla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose. Secondo la giurisprudenza di legittimità, la responsabilità presunta per danni cagionati da cosa in custodia, stabilita dall’art. 2051 cod. civ., trova il suo fondamento, oltre che su un effettivo potere esercitato dal soggetto sulla cosa tale da implicare il controllo e l’uso di essa, anche sul fatto che il danno si sia prodotto nell’ambito del dinamismo connaturale alla cosa medesima o per l’insorgenza in questa di un processo dannoso ancorché provocato da elementi esterni; la norma, pertanto, non richiede necessariamente che la cosa sia suscettibile di produrre danni per sua natura, cioè per suo intrinseco potere, in quanto, anche in relazione alle cose prive di un dinamismo proprio, sussiste il dovere di custodia e di controllo, quando il fortuito o il fatto dell’uomo possono prevedibilmente intervenire (come causa esclusiva o come concausa) nel processo obiettivo di produzione dell’evento dannoso, eccitando lo sviluppo di un agente, di un elemento o di un carattere che conferisca alla cosa l’idoneità al nocumento. Nell’interpretazione della norma si è pure ritenuto che il profilo del comportamento del custode è estraneo alla struttura della fattispecie prevista dall’art. 2051 cod. civ. e che il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio che grava sul custode per i danni prodotti dalla cosa, che non dipendano da fortuito, precisando che quando la cosa svolge solo il ruolo di occasione dell’evento ed è svilita a mero tramite del danno (in effetti provocato da una causa a essa estranea) si verifica il cosiddetto fortuito incidentale, idoneo a interrompere il collegamento causale tra la cosa e il danno; all’ipotesi del fortuito viene pacificamente ricondotto il caso in cui l’evento di danno sia da ascrivere esclusivamente alla condotta del danneggiato, la quale abbia interrotto il nesso eziologico tra la cosa in custodia e il danno; il giudizio sull’autonoma idoneità causale del fattore esterno ed estraneo deve essere adeguato alla natura e alla pericolosità della cosa, in modo che tanto meno essa è intrinsecamente pericolosa e quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più l’incidente deve considerarsi determinato dal comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a interrompere il nesso eziologico tra cosa e danno e a escludere, perciò, la responsabilità del custode la quale è stata sempre negata dalla giurisprudenza della Cassazione sulla base della considerazione che il dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all’uso della cosa cessa di fronte a un’ipotesi di utilizzazione impropria, la cui pericolosità sia talmente evidente e immediatamente apprezzabile da chiunque e tale da renderla del tutto imprevedibile, in modo che l’imprudenza del danneggiato, che abbia riportato un danno a seguito di siffatta impropria utilizzazione, viene a integrare il caso fortuito.
Così la Suprema Corte, rilevando che tutti questi principi erano stati applicati dai giudici di merito, ha respinto la richiesta di risarcimento del danno proposta dal danneggiato.



Responsabilità penale

Va ancora ricordato che dall’evento dannoso possono derivare, a carico del proprietario della piscina (e, quindi, eventualmente pure dell’amministratore che sia stato nominato) anche conseguenze di carattere penale (per esempio, reato di omicidio colposo e di lesioni personali colpose).
A tal proposito si deve ricordare una sentenza (Trib. Ferrara 28 dicembre 1999), relativa a un procedimento contro l’amministratore condominiale a seguito della morte per annegamento di un bambino nella piscina condominiale in cui non era previsto il servizio di salvataggio, secondo la quale la piscina medesima (pur essendo privata e come tale non assoggettata al D.M. 18 marzo 1996, che prevede come obbligatoria la figura dell’assistente per gli stabilimenti, né essendo soggetta all’Atto di intesa Stato-Regioni vigente, in quanto non recepito dalla Regione interessata dalla piscina stessa) integra comunque gli estremi della cosa pericolosa secondo l’art. 2051 cod. civ., la cui custodia deve espletarsi da parte di colui che abbia l’effettivo potere materiale sulla cosa che, nel caso del condominio, è il condominio medesimo e non l’amministratore condominiale.